Nonostante il titolo, questo è uno dei miei film preferiti. Un horror spagnolo del 1975.
La trama è la seguente: due coniugi inglesi vanno in vacanza in un’isola spagnola dove scoprono che i bambini sono impazziti e hanno cominciato ad ucciderne gli abitanti. Dovranno provare a fuggire.
L’horror non è un genere semplice da mettere in scena, anzi è il genere più difficile, perché non punta a razionalizzare niente. La paura in sé non è razionale: è una reazione nervosa di pochi istanti, in cui i muscoli si contraggono per il terrore dei predatori. È quasi impossibile rimanere sulle spine per tanto tempo per un qualcosa che non esiste (un’opera di finzione).
Nel tempo l’horror si è evoluto sensibilmente, dall’“Arrivo del treno alla stazione” dei fratelli Lumiere (prima pellicola ad aver terrorizzato un’intera sala) ad “Unfriended” e “Paranormal activity”, ripresi dall’originale prospettiva di una chiamata skype o una telecamera.
Le buone idee innovative possono però portare all’errore nell’horror, perché spesso tendono più a spettacolarizzarlo, piuttosto che a renderlo realmente pauroso.
Ma cos’è che fa veramente paura? L’immedesimazione. Ci spaventa veramente qualcosa per cui proviamo un coinvolgimento emotivo. Per fare un esempio:
Tutti abbiamo visto degli uccelli appollaiati sui monumenti cittadini, oppure intenti a beccare delle briciole per strada.
Sono tipici elementi dello sfondo urbano.
Nessuno ne avrebbe mai paura.
Nel film “Gli uccelli”, Hitchcock si domanda se, contro qualunque consuetudine, i volatili, pacifici e fuggevoli come noi li conosciamo, cominciassero ad attaccarci. Ecco come il maestro della suspense restituisce a noi spettatori un’idea purissima di terrore, coinvolgendoci (dato che tutti sanno cosa sono e come si comportano gli uccelli) e ribaltando il nostro sapere (dato che gli inoffensivi uccelli cominciano a uccidere).
Dopo aver visto il capolavoro del maestro inglese, non pensavo che questo concetto di orrore puro per l’inaspettato potesse andare oltre. Poi ho visto “Ma come si può uccidere un bambino?” e mi sono ricreduto.
La pellicola è un ovvio omaggio a “Gli uccelli” di Hitchcock, che il regista, Serrador, cita nella maniera migliore possibile: sviluppandone ulteriormente l’idea alla base. Serrador rende malvagio ciò che veramente, per noi, è impensabile temere: i bambini.
Quando noi tutti, come società, pensiamo ai bambini non li consideriamo soltanto innocenti e innocui, ma anche intrinsecamente buoni. Non soltanto li crediamo incapaci di compiere il male, ma, nelle nostre menti, operano il bene. “I bambini sono la salvezza”, “i bambini sono il futuro”, “essere buono come un bambino”, non sono soltanto frasi fatte, sono i pensieri che tutta una società, la nostra, ha sui minori.
Nessun adulto sano di mente ucciderebbe un bambino, ma Serrador si domanda se, al contrario, un bambino potrebbe mai uccidere un adulto. E cosa faremmo noi per rispondere a questa furia omicida?
Questi sono dilemmi non da poco che il film ci pone, ma non si ferma qui. Quello che accade ai bambini dell’isola non è soltanto un improvviso invasamento.
Il film si apre con dei video di alcuni dei più grandi massacri del Novecento: l’Olocausto, la guerra del Vietnam e il conflitto indo-pakistano, mentre una voce ci elenca il numero dei morti e quanti di questi sono bambini, spesso più della metà.
Ecco che la pellicola ambiziosamente alza il tiro, andando ben al di là di quanto gli horror riescono a trasmetterci e facendo sì che la Storia entri nella finzione del cinema.
Quella dei bambini è una vendetta contro gli adulti, un furore cieco e sanguinario in risposta alla violenza seguita di pietà di noi “grandi”. Molto spesso ci impressioniamo e intristiamo per l’alto numero di giovani vittime collaterali nei conflitti, ma comunque, sapendo che i bambini saranno i primi a morire, non ci esimiamo dal compiere atrocità di ogni tipo.
Allora, per chi è giusto tifare? Come riflettono gli adulti nel corso del film “sono sempre i bambini a rimetterci”, lo sanno i due coniugi inglesi che provano a scappare e lo sappiamo noi spettatori fin dai primi minuti della pellicola (quando ci vengono mostrate le vittime innocenti dei conflitti) speriamo veramente che gli adulti la facciano franca?
Ho finito di spiegare il valore oggettivo di “Ma come si può uccidere un bambino?”, da qui in poi rifletterò sulla sua importanza storica e, per fare ciò, è necessario concentrarsi sul contesto della sua uscita in sala:
Era il 1975, il dittatore Franco era morto da meno di un anno. La Spagna senza un leader divenne, non senza qualche turbolenza, un paese democratico. Anche l’Italia sperimentò il fascismo nel Novecento, ma, a differenza della dittatura franchista, la caduta di Mussolini ci costò un’occupazione e una guerra civile. Seguirono gioia e festeggiamenti, ma poi?
La fine del fascismo aveva significato anche la fine della censura e dei prigionieri politici. Gli artisti furono allora liberi di fare arte, di rappresentare il mondo così come lo vedevano non già con la lente deformata e falsa del fascismo. Ma quale Italia vedevano, allora? Un paese devastato dalla guerra, dalla povertà, diviso ancora politicamente tra monarchici, repubblicani, comunisti e nostalgici del regime.
Ecco che allora nasce l’esigenza di raccontare il crudo mondo reale, un mondo di sopraffazione, di città distrutte. Nacque il Neorealismo.
Cosa accadde invece in Spagna? Gli artisti spagnoli alla morte di Franco cosa potevano raccontare? Come gli italiani, anche loro erano finalmente liberi dalla morsa del totalitarismo, ma la situazione del loro Paese era molto differente. Franco lasciava una Spagna economicamente messa bene, membro della NATO, alleata degli Stati Uniti. Eppure nessun intellettuale scappava alla censura, nessuno era libero di pensarla come voleva, tutto ciò che la Spagna aveva guadagnato grazie a Franco: la ricchezza, il welfare, il turismo, erano costati molto a tutto il Paese: la perdita della libertà individuale.
Era marcia, la Spagna, una democrazia che non aveva fatto i conti con il suo passato, che aveva intestato strade e piazze al suo dittatore e ai membri del suo entourage. Come si poteva rappresentare quell’ambigua realtà, di ricchezza economica e povertà spirituale? I cineasti spagnoli rifuggirono lo stile documentario e descrittivo del Neorealismo italiano e si cimentarono nel cinema di genere. Col tempo, in Spagna si girarono sempre più noir, fantasy, melodrammi e, soprattutto, horror. Una vena artistica che ancora oggi non si è esaurita e che ha portato la Spagna ai vertici del cinema mondiale.
Oggi il cinema spagnolo si sta godendo le luci della ribalta. Almodovar, Balaguerò e Amenabar sono alcuni tra i più grandi registi del cinema contemporaneo, come anche gli attori Bardem, Banderas e Cruz sono tra i più richiesti al mondo. “La casa di carta” è tra le serie più di successo degli ultimi anni, così come Elite e Vis a vis.
È facile però che tutto questa fama porti alla cecità. Il cinema spagnolo di oggi non è troppo diverso dal cinema spagnolo di ieri, e, anzi, se oggi i cineasti iberici osano e si cimentano in tanti generi diversi il merito principale è di quei pionieri, come Serrador, che all’indomani della morte di Franco scelse di girare un film ambientato in una classica isola da vacanza, il corrispettivo spagnolo di Panarea o Procida.
Un luogo tranquillo in cui la violenza irrompe in un attimo e nel modo più tremendo.
Serrador ci mostra le sue idee sull’innocenza, sulla Storia recente e sulla Spagna, travestendola da film horror. Egli è la prova che l’Arte trova sempre un modo per veicolare i suoi messaggi.
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