Charlie Chaplin: un genio irriverente, un comico malinconico o un sentimentale? Forse tutte e tre le cose. Chaplin porta all’interno del suo cinema e del suo genere- lo slapstick- il sentimento. Lo spettatore quando guarda Chaplin sa già che riderà e piangerà. Non sempre uso a tecniche complesse come altri comici del suo tempo (come Buster Keaton), bensì devoto al culto della semplicità. Una tecnica tanto semplice quanto efficace che permetterà a quello che in infanzia fu un povero infante di diventare la maschera più riconosciuta della storia del cinema, nonché uno dei registi in assoluti più amati. Già, perché Chaplin viene da una famiglia poverissima. Fino ai 23 anni vivrà nella miseria. Unica consolazione la frequentazione di una compagnia teatrale e gli spettacoli solisti, grazie ai quali riesce ad estraniarsi da una realtà ostile. Compiuti i 23 anni, Chaplin opta per il viaggio della speranza: sbarcherà in America. Immediatamente viene assoldato da varie major cinematografiche che notano il suo talento. Il suo volto diventerà uno dei volti più conosciuti nell’universo delle comiche, uno dei generi più in voga del periodo.
Sarà tra il 1916 ed il 1921 il suo primo periodo di grande popolarità. Chaplin apprende al meglio le tecniche di regia ed affina la maschera di Charlot, una maschera tanto comica quanto tragica. Sono anni all’insegna della creatività. Chaplin si ritrova a filmare l’autobiografico “L’emigrante”, film tanto divertente quanto drammatico su una tipica barca per emigranti. Altra evidenza del suo talento, “ Charlot soldato”, parodia della prima guerra mondiale, ma allo stesso tempo prima condanna del grande orrore della guerra, contro il quale Chaplin si opporrà per tutta la vita.
Ma dopo il 1921, un blocco. Chaplin è stanco di girare in tempi inevitabilmente contenuti, vuole qualcosa di più grande. Le forme del cortometraggio e del mediometraggio non sono più foriere di libertà, ma prigioni entro le quali Chaplin non riesce più ad uscire. La rivoluzione avviene con l’ultimo film realizzato con la major “First National”. Il film si chiama “Il monello”, una storia tanto semplice quanto commovente. L’amore universale tra un bambino abbandonato ed un vagabondo celebrata a colpi di sketch irriverenti e fisici, ma anche attraverso il dramma. La psicologia dei personaggi grazie alla durata maggiore del film viene approfondita: Chaplin prende il cinema classico e lo rilegge secondo il proprio criterio.
Tuttavia, Chaplin rivendica maggior indipendenza. Nel 1921 assieme ad altri celebri cineasti dell’epoca come Griffith e Fairbanks fonda la United Artists per potersi permettere libertà che non avrebbe se fosse scritturato sotto major. Tanto è vero che il primo film di Chaplin sotto United Artist è La donna di Parigi dove appare solo in un cameo. Il film è un melodramma classico estremamente scheletrizzato, fino a renderlo in certi momenti quasi misterioso. Risulterà sicuramente influente per molte generazioni di registi (come ad esempio Michael Powell,Lubitsch), ma allo stesso tempo piuttosto stanco. La donna di Parigi è il primo e unico fallimento economico di Chaplin, che così ritornerà alla maschera di Charlot.
E’ il film successivo a fare ritornare Chaplin sulla cresta dell’onda. La febbre dell’oro non è solo un racconto tragicomico sulla corsa all’oro, bensì un’opera matura. Il sentimentalismo viene dosato alla perfezione e mischiato con trovate tra il cinema di Buster Keaton e il cinema delle attrazioni di Melies. Nel primo le oscillazioni della casa ricordano forse vagamente One week, seppure i due comici lavorino in maniera completamente diversa. Invece, il cinema di Melies descrive la scena dell’allucinazione da fame e della conseguente trasformazione di Charlot in pollo. Centrale, come ne “Il monello”, è l’amore. La popolarità di Chaplin sale alle stelle.
Dopo uno scandalo dovuto al matrimonio con la sedicenne Lita Grey (immediatamente interrotto), Chaplin torna al cinema con “Il circo”. Il circo lavora sempre sul conflitto patetico-comico, ma inserisce elementi più complessi. I personaggi vengono approfonditi sul piano psicologico in maniera più colorita, la stessa struttura dell’intreccio è più complessa. Tuttavia, è soprattutto un film che simboleggia un passaggio.
Da inserviente, Charlot, si trasforma nella massima attrazione del circo che è autobiografia e anche metafora del passaggio di Chaplin nel cinema del futuro, quello del sonoro.
Eppure il passaggio di Chaplin al sonoro sarà estremamente particolare. Il primo film di Chaplin nell’epoca del sonoro è infatti ancora un muto, o meglio non parlato. Si tratta de “Le luci della città”, storia di un amore tra una fioraia cieca e Charlot. Una storia semplice, ma anche qui Chaplin lavora nell’ottica di una complessificazione. Chaplin lavora sul sonoro, estensione della semplice immagine, rinunciando all’uso della voce. Oltretutto decide di lavorare su una vera e propria poetica del “diverso”, del “non adattato”. I “normali”, come nel resto in “Freaks” di Ted Browning, non sono in grado di provare veri sentimenti. Solo la disabilità porta all’innocenza: un messaggio semplice, forse ingenuo, eppure durante il film, non c’è ne accorgiamo. La parabola della cieca che riacquista la vista grazie alla estemporanea donazione di un milionario a Charlot(che verrà condannato per furto) è una parabola archetipica, che va a ricondursi a storie e leggende antiche. Le luci della città è un film tutt’altro che banale, al contrario di quanto potrebbe suggerire una visione superficiale. E’ cinema strutturato e dotato di senso, dove il personaggio Chaplin viene notevolmente ridimensionato all’intreccio ed alle invenzioni del Chaplin regista. Celebrato come grandissimo capolavoro all’epoca, Le luci della città è ancora oggi considerato uno dei massimi capolavori della settima arte.
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