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B come Bunuel (seconda parte)

Riprendiamo da dove ci eravamo lasciati. Nel 1959 Bunuel gira Nazarin. Nazarin è uno dei film più ambigui della carriera del maestro: il racconto si concentra su Padre Nazario, un semplice padre di campagna. Le avventure porteranno Nazario a scontrarsi con la brutalità della realtà circostante e le ipocrisie della società dominante. Nelle ultime sequenze si rivelerà tutto il tormento di Nazario, uomo qualsiasi che non può essere salvato dalla fede. Ma in tutto il film il percorso perfetto dell’anima di Nazario sembra delinearsi linearmente. Il surrealismo viene abbandonato a favore di un racconto brutalmente realista. Ed è forse questo brutale realismo a porre le domande fondamentali agli spettatori Chi è Padre Nazario? Chi sono i suoi seguaci? Un racconto crudele, spietato in diversi frangenti. Ma il Maestro vuole sbattere in faccia senza compromessi l’ambiguità del reale- nonché tutti i giochi di potere tra le figure- di fronte agli spettatori; e lo fa in maniera formalmente perfetta.


Dopo due film coprodotti negli Usa dalla qualità piuttosto mediocre(L’isola che scotta, Violenza per una giovane), Bunuel decide di ritornare in Spagna dall’autoesilio in Messico. Il ritorno in patria appare agli occhi di tutti una resa al regime franchista. Ma è proprio in questo frangente che Bunuel gira quello che forse non è il film più bello del maestro, ma sicuramente quello che manifesta alla perfezione il suo pensiero politico-sociale. In Viridiana troviamo tutte le tematiche care al regista. Il rapporto ambiguo tra zio e nipote(suora), fatto di perversione e repressione, sadismo e masochismo, che rispecchia in un certo qual momento il rapporto classe dominante-classe dominata. Alla morte dello zio, Viridiana si dedicherà a creare una comunità di sottoproletari: ma gli uomini non possono essere addomesticati da un ideale, tantomeno quello religioso. Quella che doveva essere un’opera di carità si trasformerà nella liberazione del sottoproletariato dal demone della religione e del potere: in una parola, l’anarchia. Il film vincerà la Palma d’Oro a Cannes, ma Bunuel sarà costretto a tornare in Messico.



L’anno immediatamente successivo Bunuel gira un altro capolavoro L’angelo sterminatore. La trama del film è tanto surreale quanto semplice. Mentre tutti i servi scappano dalla villa di una famiglia aristocratica, tutti i borghesi invitati ad una festa alla villa rimangono prigionieri-sebbene abbiano tutta la possibilità di scappare- della villa. Una trama quasi da Borges si trasforma in una profonda riflessione su quello che è diventata la borghesia: una classe imprigionata in sé stessa, decadente, senza possibilità di redenzione se non una sfavillante apparenza che nasconde odi e violenza. Il tono fortemente surreale della vicenda aggiunge un tocco grottesco alla trama, ma il surreale in Bunuel non toglie mai credibilità alla storia. Piuttosto la potenza delle immagini deborda di pari passo col passare del film. Le sequenze finali del film infatti risultano tanto irriverenti quanto forti: il cinema- secondo la concezione di Bunuel- non è come il teatro per Brecht. Il cinema non deve spiegarsi esplicitamente: è la credibilità di ciò che è surreale a formare la riflessione nello spettatore.



Successivamente Don Luis(come viene ormai chiamato) gira un altro film interlocutorio. Diario di una cameriera è un film interessante per comprendere l’evoluzione di Bunuel, ma è più importante per una ragione biografica: Bunuel torna a girare in Europa, in Francia.

Ma prima di salutare definitivamente le Americhe ed il Messico, Bunuel gira un mediometraggio che grida letteralmente al miracolo. Simon del Deserto è una satira pungente sul mondo della religione e sul potere distruttivo di questa, ma allo stesso tempo una constatazione amara della realtà del mondo degli anni ’60. Un film che parla essenzialmente di fallimenti, quello di Simon nel redimere le anime dei peccatori e di compiere miracoli “positivi”, ma anche quello successivo di Simon, nel trovarsi disadattato di fronte ad una realtà caotica e confusa. Il film ha due punti temporali focali: il Medioevo che nel giro di una sequenza si trasforma in un locale bene di New York. Tempi in cui l’umanità-secondo il regista- ha fallito. Simon del deserto è anche la cronaca di un fallimento produttivo: un film costretto a stare in 45 minuti per una mancanza di risorse economiche. Eppure un capolavoro deflagrante, in grado ad ogni visione di stupire.



Bunuel decide a questo punto di tornare in Francia per stabilirsi. Lo fa girando immediatamente il primo capolavoro della definitiva maturità, Bella di giorno. La trama è anche qui semplice. Una donna borghese fredda verso il marito e piena di fantasie masochistiche decide di prostituirsi in una casa chiusa tutti i pomeriggi. Un film che mette a nudo tutta l’ipocrisia dell’educazione cattolica e che mostra le inadeguatezze della società borghese di fronte ad un cambiamento culturale inevitabile(che si esplicherà nel ’68). Ma Bella di Giorno è ancora film dell’ambiguità, dove i personaggi giocano su un eros che si libera unicamente in una circostanza degradante. La “padrona” deve essere “serva” per appagare le sue fantasie. Eppure il suo essere serva la condurrà ad essere considerata alla stregua di un oggetto da chi conosce la sua seconda vita. Una riflessione su eros e borghesia, sempre condita con una sana dose di cinismo.



Opera successiva è forse quella meno considerata del Bunuel maturo, La via lattea. Indubbiamente il film paga di una certa dose di intellettualismo fine a sé stesso, nonché di riferimenti difficili da comprendere per uno spettatore che non si confronta con certi autori(pensiamo alle scene che richiamano direttamente De Sade o i dogmi religiosi). Un film comunque interessante se ci si ritiene pronti nell’approcciarlo.


Dopo un paio di anni di pausa, forse per metabolizzare i grandi cambiamenti del mondo culturale, Bunuel decide di girare Tristana. Tristana è una sorta di favola al contrario. La fata buona costretta al bruto crudele diventa una strega cattiva con un fedele servo al suo seguito. La sessualità è al centro dello schermo: una sessualità vista sempre come un modo per prevaricare l’altro. Non esiste la soddisfazione del desiderio nella decadenza della borghesia: esiste solo l’espressione sporca dello stesso. E’ forse l’ultimo film con delle attinenze al reale di Bunuel, ma la patina rimane volutamente onirica, di difficile interpretazione. E’ un film di confronti, meno radicale rispetto ad altre prove del regista, ma egualmente graffiante nel suo essere “insoddisfacente”. Molti pezzi del puzzle che compone Tristana rimangono volutamente vuoti. E’ forse questa la grandezza di questo film.



Ma il puzzle torna a prendere forma e la camera ad essere impietosa con quello che è forse l’ultimo capolavoro di Bunuel, “Il fascino discreto della borghesia”. Nulla in questo film viene risparmiato: sembra di essere tornati a L’age d’or. Ma a differenza del film citato, la poetica di Bunuel non si compone più di frammenti ma di un’incredibile fluidità, come un lungo sogno pieno di piccoli orrori quotidiani: la borghesia, la repressione sessuale, la violenza del potere, i giochi di potere, il dissenso messo a tacere. Ma anche le piccole ipocrisie del ceto proletario, disposto a tutto, anche a farsi corrompere. Tutto questo viene a confluire in un titolo che entra immediatamente a fare parte della storia del cinema. In questo caso non scriverò alcun sunto della trama: è semplicemente un film che va visto il prima possibile.



Bunuel decide a questo punto di non porsi alcun freno inibitorio. Ne Il fantasma della libertà viene definitivamente meno ogni forma di illusione. La libertà è morta. Non rimane nulla di quel sogno anarchico tanto sognato per anni. La realtà stessa è diventata surrealismo: Bunuel a questo punto decide di superare sé stesso, ponendo scene sempre più grottesche in un climax ascendente per tutta la durata del film. Ogni scena è posta ad un processo di ribaltamento: è come se una realtà centrifugata venisse centrifugata una seconda volta. Una nevrosi al quadrato. Il film procede per episodi più che per trama lineare: l’unica trama possibile è quella della psicopatologia di massa (non è un caso che il testo chiave per interpretare questo film sia forse La psicopatologia della vita quotidiana di Freud).



Ultimo film è Quell’oscuro oggetto del desiderio. Un film drammaticamente pessimista, che non restituisce all’uomo nulla. E’ il film per eccellenza della contraddizione della società occidentale: l’ossessione per il possesso e la repressione del desiderio. Due poli contrapposti in cui è impossibile, secondo Bunuel, trovare una sintesi.


Nel 1983 Bunuel trova una placida morte a 83 anni a Città del Messico. Nei suoi film il suo pensiero permane, e tutti noi, oggi più che mai, dobbiamo farci i conti.

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