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Giada Borgagni

La Capanna di Betlemme

Nel 1987 venne aperta a Rimini la prima Capanna di Betlemme, una realtà della Comunità Papa Giovanni XXIII di pronta accoglienza serale e notturna per senza dimora. Don Oreste Benzi, fondatore della Comunità, avviò questa attività con l’intento di fornire ai senza dimora non solo un tetto e un letto in cui poter dormire, ma soprattutto il calore umano di una famiglia. Nel marzo del 2020, a causa della pandemia globale, il servizio serale/notturno offerto ai senza dimora è stato bloccato e tutt’ora non è ripreso del tutto.

Gli operatori si raccoglievano in stazione, il punto d’incontro, per radunare i signori senza tetto intenti a voler trascorrere la notte in Capanna. La capienza della Capanna, tuttavia, non permette di concedere a tutti i bisognosi il posto assicurato, motivo per cui gli operatori devono tener conto di alcune accortezze prima di scegliere chi portare e chi lasciare. La scrematura di chi verrà accolto dipende dallo stato psico-fisico in cui essi si presentano. Ad esempio, se l’operatore si trova davanti un signore completamente ubriaco e un altro apparentemente lucido, la scelta cadrà a favore del signore in stato di lucidità. Questa scelta non dipende unicamente da una questione di sicurezza, ma riguarda fondamentalmente un fattore motivazionale. Il percorso per uscire dalla strada richiede sacrifici, come ad esempio quello di venire fuori da una dipendenza. Mostrarsi volenterosi di voler dormire in un posto al caldo e di cenare attorno ad un tavolo implica anche lo sforzo di presentarsi sobri "all’appuntamento" con gli operatori in stazione.


Lasciare in strada una persona quando si è tenuti a dover fare delle scelte a livello numerico, porta a farti varie domande. Chi sono io per permettere tale ingiustizia? Perché oltre ad avere il privilegio di dormire sotto un tetto, posso assumere anche una posizione giudicante verso chi non ha le mie stesse possibilità? Queste domande si articolano in risposte a cui l’operatore è tenuto a riflettere durante il suo percorso. Infatti, in strutture come la Capanna di Betlemme, a compiere dei percorsi non sono solo gli utenti, ma gli stessi operatori/volontari. Avendo ricoperto in prima persona il ruolo della volontaria, ho potuto constatare che ogni valore morale e schema mentale che ritenevo aver saldi può essere messo in discussione.


La conoscenza dei singoli individui in stato di disagio ti porta a ridimensionare i metri di giudizio che si formulano nei confronti del collettivo generale. Quando il collettivo, ossia "la gente", viene osservato come un preciso individuo caratterizzato dalla sua storia e dalla sua personalità, non è più possibile generalizzare. Se in Capanna vengono accolti ex carcerati, persone con un vissuto in comunità terapeutica o alcolisti senza dimora, è importante non etichettarli in base alla loro provenienza. Sebbene ci siano delle matrici che accomunano ad esempio ex tossico ed ex tossico, questi ultimi sono due individui a sé stanti. È inoltre fondamentale valutare queste persone nella loro unicità e proprio grazie ad essa intraprendere insieme a loro un percorso mirato alle loro esigenze. Ciò aiuta e rende possibile un riscatto e un reinserimento sociale basato sulla fiducia negli altri, che porti loro a dire: ‘’Io non sono spacciato, non sono finito, posso farmi aiutare, mi fido di me stesso e mi fido di te, per questo mi faccio aiutare’’.


Ci sono tante persone problematiche che non cercheranno mai un aiuto e che ti respingeranno per vergogna o avvilimento. Sarà compito di chi percepisce la loro sofferenza aiutarli. In certe circostanze offrire aiuto significa violare il ritmo e i tempi della guarigione emotiva e della routine di una persona. Occorre quindi impegnarsi affinché si avviino in un processo riabilitante. Il progresso di una persona passa anche dalla mano di chi l’aiuta.

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