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Luca Martinelli

B come Bunuel (prima parte)

Surrealista. Provocatoria. Sacrilega. Blasfema. Innumerevoli sono le definizioni date all’opera di Luis Bunuel.


Un regista inviso ai potenti, anarchico, pronto a rovesciare tutte le convenzioni sociali all’interno dei suoi film al fine di mostrare tutte le contraddizioni della realtà.


Proveniente da una famiglia cattolica e conservatrice, Bunuel rifiuterà l’educazione ricevuta per abbracciare la filosofia anarchica, mai fine a sé stessa e pregna di cultura. L’erudizione di Bunuel è infatti pazzesca: letture di ogni tipo, dai racconti di Poe fino al Capitale di Marx, incontri con intellettuali quali Garcia Lorca e Dalì, ascolti come Wagner e Debussy. Questa erudizione sarà il motore propulsivo del suo cinema.


Surrealismi

E’ del 1929 l’esordio cinematografico di Bunuel, con un corto che è una delle pietre miliari del cinema: “Un chien andalous”. Il terzo decennio del ‘900 per Bunuel è stato foriero di visioni: il cinema russo, Lang, Murnau, Buster Keaton e gli impressionisti francesi sono le principali ispirazioni.



Dopo un paio d’anni Bunuel scrive e dirige, col limitato contributo di Dalì, il primo lungometraggio: “L’age d’or”. Prosegue sulla falsariga del cortometraggio precedente. Le associazioni oniriche e la psicanalisi sono centrali nell’opera, che non ha una vera e propria trama. Eppure, emergono nuovi temi che diventeranno dei topos nell’opera del genio d’Aragona, come la pulsione sessuale, la sua castrazione da parte del potere, l’anticlericalismo esasperato e la visione di una civiltà in piena decadenza. Il film appare lievemente meno impattante, ma sicuramente più compatto ed elaborato, anche per i riferimenti dichiarati all’interno dell’opere (es. “Il capitale” e “120 giornate di Sodoma”).

Dopo una brevissima prima apparizione sul suolo americano, Bunuel si allontana dal surrealismo per filmare un breve documentario misconosciuto, “Las Hurdes”. “Questo non è altro che la documentazione della vita in un paesino dell’Estremadura. Indigenza e povertà estrema muovono Bunuel a dirigere quello che si rivelerà essere un attacco frontale contro la Spagna Franchista e il cattolicesimo. Un’opera dimenticata, ma sicuramente da vedere.


Mexico pieno di nuvole

Dopo l’esperienza di “Les Hurdes”, le strade del regista seguono altre vie rispetto al cinema. Combatte nella guerra civile spagnola, dove è estremamente attivo. Tenta un secondo approdo negli Usa, ma l’esperienza è fallimentare ed umiliante sia sul piano umano che sul piano professionale. Bunuel decide quindi di approdare nel Messico e di tornare a lavorare nel cinema (attività abbandonata tra il 1936 ed il 1947). La prima prova cinematografica messicana è il dimenticabilissimo “Gran Casinò”, musical estremamente convenzionale e goffo, soprattutto per una piattezza narrativa inusuale per la creatività di Bunuel. Il fallimento commerciale sarà clamoroso. Il primo film messicano degno di interesse e successo è “Los Olivados”, tradotto in italiano come “I figli della violenza”.

Caratterizzato da un realismo così eccessivo da risultare quasi sgradevole, “I figli della violenza” tratta la storia di un gruppo di ragazzini tra i dodici e i sedici anni cresciuti in un contesto di pura povertà. Angherie e violenze eseguite e subite dai membri del gruppo vengono guardati ed esposti da Bunuel senza pietà o compassione. La crudezza che emerge è allucinante. Omicidi, stupri e violenze vengono mostrati in primo piano in una sorta di “primigenia” Arancia Meccanica (sebbene gli obiettivi di Kubrick e Bunuel siano diversissimi). Tale brutalità spinge molti critici a domandarsi se “Los Olivados” non sia altro che una variazione sul tema surrealista. Di certo l’intento di denuncia sociale rimane al centro dell’opera, come lo era ne “L’age d’or”. Dimenticabili, però, sono le pellicole successive di questa permanenza messicana. “Adolescenza torbida”, “La figlia dell’inganno”, “Una donna senza amore”, “Salita al cielo” e “El bruto” paiono sbiadire rispetto agli altri capolavori del maestro spagnolo. Ciò è dovuto ad un particolare motivo: i soggetti sono tutti dettati dai produttori messicani, che vogliono esaltare a tutti i costi una morale maschilista-borghese all’interno dei film.

Per tornare all’ispirazione Bunuel ricorre ad un classico della letteratura inglese: Robinson Crusoe.

“Le avventure di Robinson Crusoe” non rappresenta la vetta della creatività del regista, ma di certo riporta l’autore a tematiche di interesse filosofico/analitico. La figura di Crusoe viene rivalutata in chiave totalmente anti-antropocentrica, in quanto è equiparato a tutte le altre bestie dell’isola. Il germe del genio torna ad affiorare.

Infatti, immediatamente successivo sarà il capolavoro “El” (“Lui”). Un film sull’ossessione amorosa e sui ruoli sociali: una pellicola che inserisce all’interno di quadri realistici visioni puramente surrealiste, in cui la psicoanalisi è perennemente presente. La riflessione di Bunuel va ad inserirsi in un contesto familiare di cui vediamo le ipocrisie ed i mali, nonché un totale ribaltamento dei ruoli sociali. Ad esempio, Don Francisco viene considerato da tutti un gentiluomo nonostante compia ogni genere di angheria nei confronti della moglie. Tutti i minuti finali del film, scanditi come un thriller alla Hitchcock, vengono turbati dai dubbi del personaggio principale. Soggettiva è l’inquadratura che mostra lo spaesamento del soggetto in queste scene.

Bunuel successivamente tornerà ancora una volta a soggetti meno importanti. Solo in “Cime tempestose”, ispirato al romanzo di Brontë, il regista spagnolo tenta di ardire di nuovo verso un tono ambiguo-surreale, senza mai riuscirci a pieno.


Sarà nel 1955 con “Estasi di un delitto” che Bunuel tornerà ad essere quello che è, con un film che è sin troppo poco conosciuto. In questo film il personaggio principale desidera sempre la morte delle donne che lo circondano (pulsione di morte freudiana), morte di cui mai sarà responsabile, ma solo spettatore. Secondo Moravia il film è una “metafora dell’impotenza maschile”. Rappresenta l’ambiguità dell’essere umano. Infatti, il desiderio di morte affiora nel raptus che viene celato in ogni modo di fronte alla società. L’umano è violento e pulsionale e la società lo reprime. Il finale positivo del più surreale dei drammi lascia lo spettatore avvolto nei dubbi.

Ultimo film della fase messicana di Bunuel è “Nazarin”. Ma di questo parleremo nella prossima puntata…

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